Luna di fiele: la crisi dopo le nozze

Dimentichiamoci il fatidico “e vissero per sempre felici e contenti”. Purtroppo non sempre le cose vanno come dovrebbero. Sembra incredibile, ma i dati statistici lo confermano: dopo il matrimonio e la luna di miele, una coppia su dieci soffre di una crisi depressiva che può essere anche di forte intensità.

La diceria: una voce che corre

Volendola rendere “plastica” , la diceria, potremmo immaginarla come una ‘voce che corre’, che si diffonde all’interno della società, nessuno ne è immune, è un po’ come una malattia, di cui tutti siamo portatori sani.

La diceria non si risparmia in fantasia, spesso cose stranissime capitano a persone sconosciute, ad amici degli amici. E’ così che sappiamo che quel tipo che si è trovato vivo in una cassa da morto e per la disperazione si è cavato gli occhi, o dell’infante rapito dagli zingari e sottratto alle braccia della madre o portato via nel grande centro commerciale.

Internet poi, è diventato il nuovo scrigno che contiene notizie e bufale, che hanno diffusione rapidissima e riguarda in particolar modo, virus da eliminare, bambini da aiutare e iniziative a sfondo filantropico. 

Naturalmente non è possibile che tutte le dicerie siano false, eppure lo sono per la maggior parte ma  la cosa più incredibile, è la nostra acriticità nell’accogliere tali incredibili racconti, così come la predisposizione inconscia a continuare a trasmettere agli altri cose di cui abbiamo consapevolezza siano infondate, non facendo nulla per opporci a questa sorta di catena di Sant’Antonio.

Se ne deduce pertanto che le dicerie sono innocue, di solito è così, ma contengono un potenziale estremamente pericoloso, possono infatti rovinare la vita e le relazioni sociali di una persona, isolarla e portarla perfino alla morte

Figlio unico, è un bene?

Assistiamo e  da un pò ad uno dei cambiamenti sociali più evidenti dell’ultimo secolo e che investe la famiglia. Abituati fino a trent’anni fa ad un parentado esteso e alla struttura patriarcale, ci ritroviamo sempre più spesso oggi ad una di tipo “nucleare”, composta di pochi elementi. Infatti il numero dei figli per famiglia si è notevolmente ridotto e oggi è facile riscontrare che sempre di più coppie che decidono di avere un solo figlio, con il proposito evidente di poter curarlo con maggiore attenzione e rispondere meglio ad ogni suo bisogno.

A tutt’oggi non è possibile però ottenere un oggettivo punto di vista sul positività o meno dell’essere figli unici come del non esserlo e la risposta è semplice:  il figlio unico non può naturalmente sapere cosa signichi avere dei fratelli, così come chi li ha non può comprendere fino in fondo come ci si senta ad essere figlio unico
Del resto entrambe le condizioni presentano vantaggi e svantaggi, a seconda dell’età di riferimento.

Nell’infanzia, le “opportunità” che normalmente sono attribuite alla condizione dell’ essere figlio unico sono nella maggiore attenzione che spesso questi ricevono dai genitori e dai parenti. Da ciò ne deriva anche una serie di vantaggi materiali.

Questa è la ragione per cui alcuni considerano la condizione del figlio unico come quella di  “bambino viziato“, mentre in realtà a renderlo tale sono esclusivamente i genitori. Il gap dell’ essere figlio unico nell’infanzia, è dato dal fatto che se la famiglia non è monoreddito ed entrambi i genitori lavorano, il bambino sarà affidato alle cure di altre figure di riferimento, come i nonni o i  baby sitters. Se da una parte, il confronto con le persone adulte lo matura precocemente e ne migliora la ricchezza del vocabolario, è pur vero però che la mancanza di contatti costanti con i propri coetanei, priva questo bambino di fondamentali esperienze comunicative e sociali che hanno un peso determinante nello sviluppo emotivo e cognitivo. Per questo è molto importante inserirlo al più presto al nido.

La patologia del giocatore dipendente o gambler

La patologia del giocatore dipendente (gambler) è tipica dell’ individuo che non ha più il controllo del proprio  divertimento al gioco, rendendo questo una necessità irrefrenabile tanto che necessita un’immediata risposta, a discapito di qualsiasi altra situazione sociale, economica e familiare.

Si tratta per lo più di giochi d’azzardo o di scommesse, i quali sono pienamente legali e nella maggior parte del mondo. Questa dipendenza è dovuta ad un disturbo che inficia la capacità di controllo degli impulsi.Vulnerabile alla tensione emotiva, il soggetto trova sollievo solo dedicandosi al gioco.
L’attività di gioco annulla qualsiasi altra condizione, intensi sono pensieri ed azioni relativi al senso di colpa e al bisogno di appagamento che solo la dipendenza sembra dare. La dinamica si ripete sempre uguale: se va male, il giocatore tenta di riguadagnare quanto perso, mentre se vince tende ad alzare la posta e a giocare sempre di più, considerandosi fortunato per quel giorno.

Ciò che rende tale ossessione insidiosa è che di solito, per recuperare quanto si è perso, si tende ad aumentare il piatto proprio nel momento in cui si sta perdendo piuttosto che quando sta vincendo. Inoltre quando il gambler tenta di non giocare, si mettono in moto una serie di sintomi da astinenza dal gioco, tra cui non sono esclusi sintomi di tipo depressivo, ansia ed aggressività.
Non è possibile un “indentikit” del soggetto specifico che può soffrire di una dipendenza da gioco.

Di solito però, si tratta di individui in cui in letenza sono presenti tratti di personalità narcisistica od antisociale. Il fragile autocontrollo e l’incapacità ad affrontare le situazioni giornaliere possono favorire il manifestarsi di tale patologia.
I giochi che inducono più facilmente ad acquisire questa dipendenza, sono quelli vi è un’immediata riscossione del premio in seguito ad una scommessa.
Maggiormente sono colpiti gli uomini in età giovanile ed intorno ai 40 anni, mentre la fascia di età delle donne è tra i 40 ed i 50 anni.

Non c’è memoria senza tenerezza

Bisognerebbe parlare, più spesso e con emozione, di un sentimento: la tenerezza. La tenerezza è alla radice  di ogni delicatezza, amicizia, forma d’amore, impresa. Di ogni rivoluzione del cuore. “Bisogna essere duri” scriveva Ernesto Che Guevarasenza perdere la tenerezza“. Così i bambini sono teneri per loro stessa essenza e lo sono anche quegli adulti, maturi utopisti che, come Oscar Wilde, dichiarano: “Una mappa del mondo che non preveda il Paese dell’utopia non merita neppure uno sguardo“. Infine, non c’è “colore del grano“, per dirla con Saint Exupéry ovvero non c’è memoria senza tenerezza. Non c’è, comunque ricordo d’infanzia, d’adolescenza, di giovinezza o di un passaggio importante della nostra vita che, rivisitato per conoscere meglio noi stessi, per indagare le nostre eperienze e i vissuti delle nostre relazioni con gli altri (da quelli più intimi a quelli che, pure, ci hanno fatto soffrire), non contempli, al fondo, una certa, dovuta, inevitabile tenerezza. Verso noi stessi, verso quelli che abbiamo amato o che, in qualche modo, anche dolorosamente, ci hanno coinvolto.

Così, proviamo tenerezza verso quello che, magari, poteva essere e non è stato (e, allora, la tenerezza si fa nostalgia). O, meglio e ancora, il sentimento della tenerezza ci coglie verso ciò che è accaduto, siamo stati o di come siamo, ineluttabilmente, ormai diventati. Teneri noi! Allo stesso modo, teneri sono tanti ricordi al pensiero dei quali non rinunciamo mai; teneri gli appunti che conserviamo; le lettere inviate e ricevute; i nostri disegni e quelli dei nostri figli; tenere le musiche che riascoltiamo; teneri i vecchi peluche che non abbiamo mai gettato via e i vestiti fuori moda che conserviamo perennemente appesi negli armadi.

Miglioramento personale, l’importanza dell’autocritica

 Cos’è l’autocritica? Wikipedia la definisce “l’atto di esaminare e giudicare il proprio comportamento al fine di migliorarlo“, eppure quando sentiamo parlare di autocritica tendiamo ad associarlo ad aspetti che poco hanno a che fare con il suo vero significato, come la paura di essere giudicati; al contrario l’autocritica è un ottimo strumento per migliorarci sotto diversi aspetti.

L’invidia è stupida

 

Quanta stupidità si annida nell’invidia. Di cosa mai dovremmo essere invidiosi? Cosa pretendiamo da noi stessi? Perchè alcuni aspirano ad assomigliare, quando addirittura non scimmiottare talenti, atteggiamenti, modi di essere che non gli appartengono, di altre persone, rendendoli infelici e frustrati?

Per intenderci: non tutti abbiamo l’avvenenza dei divi del cinema, eppure nella nostra esistenza di certo abbiamo fatto cose di cui poter essere soddisfatti. L’invidia dunque, va sempre di pari passo con la mancanza di autostima. Si prova questo sentimento perché non si è abbastanza convinti del proprio carattere. Così si svalorizza se stessi, un’operazione priva di senso. Infatti, se l’invidia è basata su una competizione fisica bisogna assolutamente relativizzare l’importanza di questa componente.

La gelosia è motivata dall’insicurezza

Avete presente le ricette di cucina, quando compare l’abbreviazione professionale “q.b.”, ovvero: quanto basta? Ecco, così dovrebbe succedere anche con la gelosia: in ogni storia d’amore dovrebbe essercene quanto basta. Perché questo sentimento è come una borsetta: è un accessorio utile e sempre presente in un rapporto (è inutile negarlo o pensare il contrario), ma non si può averne troppe. Infatti, un pizzico fa sentire all’altro di essere amato, gli dà la percezione di essere importante e prezioso, di essere indispensabile.

Sempre questo pizzico lusinga il partner, che davanti a un piccolo interrogatorio mostrerà biasimo, ma in cuor suo saprà che il sentimento dell’altro è vero, forte e profondo. Il vero problema? Riuscire a misurare questa dose, questo “quanto basta”. E non è affatto facile, perché può mutare e dipendere dalle proprie fragilità e dai propri bisogni. Ma c’è un confine da non superare. Quello della libertà dell’altro. Certo, la gelosia è un sentimento legato a un senso di possesso, ma non deve, mai e poi, arrivare a compromettere l’autonomia e l’indipendenza di chi si ama, che non può essere rinchiuso nel santuario esclusivo della coppia.

Non inimichiamoci i vicini di casa

Si leggono molte storie sui vicini di casa. Alcune tragiche, altre comiche. Altre ancora raccontano storie di pura indifferenza: persone che vivono nello stesso condominio e che, se si incontrano per strada, non si salutano perchè non si riconoscono. Questi rapporti sono sempre delicati. Prima o poi capita che si debba interagire per qualche ragione ed è bene poterlo fare in assenza di conflitti.

Significa che bisogna per forza intrattenere relazioni con queste persone? No ovviamente. Può capitare di diventare amici del vicino di pianerettolo, con cui ci si scambiano piccoli favori o qualche invito a cena. E’ sicuramente un aiuto perché, nelle grandi città, avere qualcuno su cui contare è una risorsa preziosa. Ma in generale si possono instaurare buoni rapporti pur mantenendo le distanze.

Abbiate il coraggio di chiudere le vostre storie d’amore quando vi rendono infelici

Per riuscire a mettere la parola fine a un rapporto ci sono vari modi: in realtà, in alcuni casi più che il coraggio è importante trovare la motivazione. Per fare questo è necessario staccarsi dalle resistenze e ragionare sul perchè è bene agire. E, soprattutto, sulle conseguenze negative del non chiudere quella relazione.

Per esempio, se a voi la storia sembra ormai esaurita e non la chiudete, facilmente accadrà che a causa del logoramento del rapporto si passi dal non amarsi al non volersi nemmeno più bene. Dopodichè il nostro inconscio, per far sì che accada ciò che vogliamo, ci spingerà a concentrarci sui lati negativi del partner portandoci a detestarlo, odiarlo e quindi a litigare solo per costringerci a lasciarlo.

Bisogna tenere presente che quando le nostre scelte sono dettate dalla paura di soffrire o di far star male l’altra persona si sbaglia comunque. Perchè continuando la relazione non risparmiamo dolori a nessuno. Anzi: aspettare e rimandare inasprisce l’atmosfera già pesante.

La gioia ha un risvolto etico

La parola gioia si collega al termine greco ganos, che significa splendore, luccichio. Infatti, ancora oggi usiamo espressioni che si trovano in Omero, come “la gioia che risplende sul volto” oppure “occhi che brillano di gioia“. Questa emozione ha la caratteristica di risplendere sulle persone che la provano, di illuminarle. E si dice anche “esplosione di gioia”, perché è qualcosa di forte, potente come uno scoppio e incontenibile. Da questa analisi semantica, si può comprendere che la gioia è una manifestazione della felicità, è la dimensione pubblica della felicità.

E mentre quest’ultima è un sentimento interiore, anzi un bene duraturo che si conquista solo con la virtù, la gioia è la sua manifestazione esteriore. Una manifestazione che porta con sè festa ed allegria. Ma anche calma, perché ci si compiace del proprio stato, si sente una sorta di equilibrio e di pace, con se stessi e con il mondo che ci circonda.

La “chimica” cerebrale influenza i nostri comportamenti

Immaginate un uomo che passeggia con una donna accanto. Il cellulare squilla; lui getta un’occhiata al display, risponde, e intanto rallenta il passo. Discute con un collega, e si ferma del tutto. E lei, soprattutto se è la moglie, comincia a manifestare chiari segni di nervosismo…Lo stesso che coglie milioni di donne ogni giorno, constatando che un maschio non può fare due cose alla volta.

Persino cose banali, come rispondere alla fidanzata che gli chiede qualcosa mentre lui guarda la tv. Del resto, il maschio detesta che gli si parli mentre è intento a seguire un programma televisivo. Anzi, detesta proprio che…lei parli così tanto. Forse non sa che la chiacchiera è una sorta di necessità fisiologica, per la donna: nei centri cerebrali del linguaggio e dell’ascolto, le signore posseggono, infatti, l’11% di neuroni in più rispetto agli uomini.

Ebbene sì: i cervelli di lui e di lei son diversi. E ricordandolo, forse, eviteremmo molte arrabbiature di coppia. I codici genetici di maschi e di femmine sono per più del 99% identici, ma “i due cervelli hanno impronte genetiche diverse che creno differenze anatomiche“, si legge su uno degli ultimi numeri della rivista scientifica New Scientist.

I machi “meno colti” conoscono una sola differenza, e la ricordano volentieri nelle discussioni, e la ricordano volentieri nelle discussioni con il gentil sesso: il cervello dell’uomo è più grande. Vero. E per la precisione del 9%, in mdia; è pure più pesante: 1.300 grammi, contro i 1.100 della donna. Ma da circa un secolo si è scoperto che le misure non hanno nulla a che fare con l’intelligenza (il cervello di un elefante pesa circa cinque chili).

Che senso ha uccidere la persona che si ama?

Siamo tutti sconvolti di fronte a tanti drammatici fatti di cronaca. Ma non solo di questi ultimi giorni. Ciò che si sta verificando, purtroppo è la continuazione di una serie di omicidi che da anni, in maniera più o meno conosciuta, vengono a ripetersi inaspettatamente dentro le mura di casa nostra.

La quiete dei nostri borghi si trasforma all’improvviso. Siamo invasi da giornalisti, telecamere, la tranquillità e la buona fama del paese distrutta, i fatti personali spesso stravolti, se non addirittura inventati di sana pianta per la fantasia pruriginosa che tutto vuole sapere. E’ così, volti di persone sconosciuti entrano nella cronaca nera, nei tg, persino nei dibattiti televisivi. Ci si scontra, insomma, con fatti che neppure lontanamente pensavamo potessero accadere, soprattutto, si tocca con mano il volto tragico della violenza. E’ un’ulteriore fenomeno del grande cambiamento culturale a cui siamo soggetti e che nel futuro evidenzierà ulteriori trasformazioni.

Tali episodi lasciano sgomente le coscienze, pongono interrogativi, vuoti ed e urgenze da colmare. Si sta venendo a modificare il concetto stesso di vita umana e si perde il senso di inviolabilità che abbiamo avuto per secoli, come patrimonio fondamentale di cultura che nel tempo ha generato profondo rispetto. La preoccupazione nasce dal fatto che si commettono questi omicidi in nome dell’amore, non è così, non è amore e non si può credere a questa giustificazione.