Piangere, a volte fa bene

Ci sono persone che, anche di fronte ad un distacco, una preoccupazione o finanche un lutto, sembrano impassibili e controllati, quasi indistruttibili, ma sarà vero? Certamente no. Spesso, infatti, dietro la maschera dell’imperturbabilità si nasconde una grande difficoltà a percepire e a vivere le emozioni, che tuttavia si scioglie in un pianto incontrollabile alla visione di un film, soprattutto se da soli.

Psicologia del pianto, quando piangere è liberatorio

 Il pianto è vissuto in modo profondamente diverso da ogni individuo. C’è chi usa le lacrime come canale di sfogo nei momenti difficili, valvola del dolore, scarico della tensione, chi piange negli istanti di gioia incontenibili e c’è chi si vergogna quando una lacrima, e solo una, riga il volto, come si trattasse della testimonianza concreta, che scorre, di una debolezza che si vuole ad ogni costo nascondere, tenere dentro.

Piangere equivale senza dubbio ad esternare delle emozioni, positive o negative che siano. Ma quando il pianto è davvero liberatorio? Se lo sono chiesti tempo fa due psicologi della University of South Florida, Jonathan Rottenberg e Lauren M. Bylsma, realizzando uno studio sulla psicologia del pianto in collaborazione con JJM Vingerhoets della Tilburg University, ricerca pubblicata dalla rivista di divulgazione scientifica Psychological Science.

Ridere e piangere, due facce della stessa medaglia

 

Uno studio dei ricercatori olandesi del Max Planck Institute for Psycholinguistics, ha reso noto che l’essere umano nasce con una gioia innata, anche se nasciamo piangendo. L’uomo, nasce infatti con la capacità di ridere, di gioire, di essere felice e di essere armonioso.

Tutti gli stati d’animo ed i sentimenti negativi, nascono dopo, nel corso della vita e saranno mediati dalle esperienze che si vivono. Gli scienziati che hanno esaminato ben 16 persone, tra cui 8 sordi dalla nascita, hanno chiesto di esprimere le proprie emozioni senza parole, ma con le sensazioni.