A Genova non cessa l’allarme. Dopo l’alluvione dei giorni passati, infatti, si torna a temere per una nuova esondazione del fiume Fereggiano a causa del forte nubifragio con cui il capoluogo ligure si è svegliato questa mattina. Il sindaco Marta Vicenzi, duramente contestata dai suoi concittadini, ha dichiarato che nel nostro Paese serve una maggiore cultura del rischio.
Per molti, si tratta solo di belle parole, ma senza scendere nell’agone politico, eventi catastrofici come quello che ha investito prima La Spezia e poi Genova, spingono a riflettere su quella che viene definita psicologia dell’emergenza, che si occupa degli interventi clinici e sociali in situazioni di calamità, disastri e crisi. Questa disciplina particolare, è nata in seguito ai contributi della psicologia militare, della psichiatria d’urgenza e dalla Disaster Mental Health, sviluppandosi poi progressivamente come insieme di tecniche d’intervento.
Mentre la psicologia tradizionale si occupa dei processi psichici cognitivi, emotivi, psicofisiologici, ecc. che avvengono in condizioni “normali”, la psicologia dell’emergenza si occupa di come tali processi vengano ad essere rimodulati nelle situazione “acute”. Per fare solo qualche esempio, lo studio di come un bambino si rappresenta dal punto di vista cognitivo, e cerca di trovare una coerenza, all’interno di una condizione di confusione come nel caso di un’evacuazione di protezione civile, o lo studio di come la comunicazione interpersonale viene alterata nelle interazioni sociali che avvengono in una situazione di rischio, rientra nel campo di competenza della psicologia dell’emergenza.
Dal punto di vista dell’applicazione pratica, la psicologia dell’emergenza si rivolge non solo ai soggetti direttamente coinvolti dall’evento critico e ai parenti e/o testimoni dell’evento stesso, ma anche ai soccorritori intervenuti sulla scena, che spesso sono esposti a situazioni di particolare drammaticità. Sul versante clinico, invece, trova applicazione nella formazione preventiva al personale di soccorso.
In una condizione d’allarme, come una catastrofe naturale, lo psicologo dell’emergenza deve anche contribuire alla pianificazione di medio termine dei servizi assistenziali alla popolazione, all’assistenza nelle interazioni e gestione dei conflitti all’interno della comunità, e tra le comunità limitrofe; alle attività di supporto nella ripresa dei servizi educativi; al supporto psicologico man mano che famiglie, gruppi e comunità ripristinano un proprio “senso del futuro”.
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