La depressione post partum è un disturbo che colpisce le neomamme, e che è collegato al periodo immediatamente successivo alla nascita del bambino. Tuttavia, esiste una forma di depressione del tutto analoga anche nei neopapà. A suggerirlo, è uno studio condotto dal team di ricercatori della NYU School e pubblicato sulla rivista scientifica “Journal Maternal and Child Health”.
La depressione post partum è una particolare forma depressiva che può manifestarsi prima e subito dopo il parto, ma anche fino ad 1 anno dopo. Più o meno tutti sappiamo che colpisce le donne, ma poco, o quasi nulla, si sapeva di quella maschile.
In una precedente ricerca, portata avanti dallo stesso Michael Weitzman, docente di Pediatria e di Medicina ambientale che ha coordinato anche quest’ultimo studio, era emerso come i problemi di salute mentale nei bambini in cui i padri avevano mostrato sintomi depressivi fossero in aumento.
Dallo studio, infatti, è emerso che il 6% dei bambini con una madre o un padre con sintomi depressivi, presentavano problemi di natura comportamentale. Come ha sottolineato Weitzman, il risultato non è così sorprendente, piuttosto a destare sorpresa è stato il fatto che nessuna ricerca su larga scala avesse indagato a fondo tale questione, nonostante la sua importanza.
Secondo Weitzman:
I risultati riportati nella ricerca illustrano i fattori che aiutano a identificare quei padri che potrebbero trarre beneficio dallo screening per la depressione clinica; pensiamo che i dati siano ora particolarmente rilevanti, data l’attuale crisi finanziaria e il contemporaneo aumento della disoccupazione negli Stati Uniti.
Lo studio, infatti, ha messo in rilievo che che a maggior rischio di depressione sono i padri che vivono in povertà (1,5 volte più comune rispetto al resto della popolazione), coloro che vivono con un bambino che presenta bisogni di assistenza sanitaria (1,4 volte più comune); quelli che convivono con una madre con sintomi depressivi (5,75 volte più comune); ma soprattutto coloro che sono maggiormente esposti a disoccupazione (6,50 volte più comune).