Il disturbo dissociativo dell’identità (DID) è solitamente causato da uno stress elevato, causato da eventi traumatici (perdite, violenze, disastri naturali) o da un conflitto interiore acuto che la mente cerca di risolvere separandosi da sentimenti e informazioni inaccettabili. Tale disordine, collegato a sintoni quali depressione, ansia, fobie, attacchi di panico, fino ad oggi è stato descritto come una condizione caratterizzata dalla presenza di due o più identità o stati di personalità distinte, ciascuna con i propri modi di relazionarsi, percepire e pensare nei confronti di se stesso e dell’ambiente. Questa descrizione ora viene messa in discussione da una ricerca condotta da Rafaele Huntjens dell’University of Groningen e pubblicata sulla rivista PLoS ONE dalla quale emerge come tra le identità separate di questi pazienti avviene uno scambio di informazioni.
Tale disturbo può essere considerato come l’esito di un’esperienza traumatica attraverso il quale una persona tenta di “rinchiudere” l’evento con lo sviluppo di più identità tra cui una che non è a conoscenza di quanto avvenuto. Questi pazienti hanno problemi di memoria che li può portare a dimenticare gli appuntamenti, a non riconoscere familiari e perciò in passato è stato ipotizzato che potessero avere più sistemi di memoria, ognuno dedicato ad una precisa identità.
Nel suo esperimento il dottor Huntjens ha voluto verificare se tra le diverse identità ci fosse un passaggio di informazioni. Per fare ciò ha posto, in un primo momento, venti domande ai soggetti, sulle loro preferenze e storie di vita, mentre assumevano due diverse personalità. Prima di ripetere le domande, l’avvenuto cambio di personalità veniva accertato chiedendo ai soggetti, appunto, quale fosse la loro identità in quel momento.
Il passo successivo del disegno sperimentale prevedeva la somministrazione di un test di reazione, ma questa volta solo per una identità: i soggetti dovevano apprendere a memoria delle parole per poi premere il pulsante “yes” se una di esse veniva proiettata su uno schermo. Al contrario, se sullo schermo appariva una parola non appresa dovevano pigiare sul pulsante “no”. Tra le parole da scegliere al test di reazione erano state inserite alcune risposte che i soggetti avevano fornito con entrambe le identità. Dall’analisi del test si è visto che quando sullo schermo comparivano le risposte date al questionario, i soggetti con DDI fornivano la risposta “no” con un significativo ritardo rispetto alle altre parole non apprese. Secondo il dottor Huntjes ciò si verifica
”perchè l’individuo ha riconosciuto che la parola aveva una rilevanza personale e come risultato di questo riconoscimento si ha una reazione più lenta”.
A parere dello psicologo clinico il fatto che una delle identità ricorda parole che sono personalmente rilevante per l’altra dimostrerebbe la presenza di uno scambio di informazioni tra le due identità.
Se i risultati di questa ricerca venissero confermati, ciò potrebbe avere conseguenze importanti in campo criminologico e modificare la convinzione che individui con DDI hanno due stati di personalità distinti e non sono consapevoli di crimini commessi con una diversa identità.
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