Le donne sono le più infelici a lavoro

di Redazione 0

 

A pubblicare questa “triste verità” è la rivista Jezebel sul suo sito Internet. Si tratta di un sondaggio promosso da Captivate Network, canale americano di informazione e news. Si è tracciato il profilo della lavoratrice più infelice del mondo. Molte potranno non essere d’accordo o al contrario riconoscersi appieno in questa figura, ma sembrerebbe che l’identikit della donna moderna in carriera e soddisfatta nasconderebbe in realtà tanti fantasmi. Il ritratto dell’infelicità sarebbe una donna single, quarantenne, con un discreto reddito, probabilmente un medico o un avvocato.

 

All’opposto, la rappresentazione dell’uomo più felice e appagato del mondo segue questi dettami: 39 anni, sposato, con un reddito familiare compreso tra i 150 e i 200mila dollari, in una posizione di senior management, con un bambino piccolo a casa e una moglie che lavora part-time. Gli uomini, quindi, sarebbero salvi. Per loro, possedere un lavoro, una famiglia e una moglie che lavora part-time sarebbe il massimo della felicità.

 

Più triste è il quadro per le donne single, che hanno combattuto una vita intera per il proprio posto di lavoro, ma che non sono riuscite a crearsi una famiglia. Perché il problema sorgerebbe proprio su questo punto. Non è per le donne difficile giostrare gli impegni derivanti dalla vita familiare e dalla vita lavorativa, ma la totale mancanza della prima creerebbe una tristezza di fondo che non rende felice la donna.

 

Dedicarsi solo al lavoro non rende felici. Infatti, il segreto della felicità per gli uomini si situa proprio nelle loro maggiori possibilità di dedicarsi ad altre attività fuori dalla sfera professionale. Le donne che lavorano, invece, sono solite lamentarsi per lo stress e per la depressione causate dal non riuscire a trovare un equilibrio fra la loro vita privata e il lavoro. Le donne risultano sconfitte e ciò che sembra utile sottolineare è la disparità esistente fra i due sessi. Per il gentil sesso diviene ancora più difficile gestire una “doppia vita”, ma sembra che fare a meno di una delle due comunque non porti alla felicità. Forse non è meglio pensare che “in medio stat virtus”?

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