Tutti facciamo finta di essere normali… è una delle battute più isolate ma che maggiormente rimbombano in Little Miss Sunshine, film del 2006 diretto da Jonathan Dayton e Valerie Faris. La vita come commedia allargata, un’esistenza che assume un tono tragicomico accettato con un sorriso ed una determinazione ad inseguire comunque quello in cui si crede, quello che tiene appesi alla realtà, che ci lega agli altri, quello che ci porta a tracciare un percorso nuovo, anche a rischio di perdere la solita strada, di non ritrovarsi più uguali a prima, non sentendone però affatto la mancanza.
Olive è una bambina di sette anni che vuole vincere il concorso di Miss America per bambine. Ci crede e trascina tutti nel suo sogno, in mezzo al deserto, su un pulmino mezzo scassato meravigliosamente ridicolo con il suo suono di clacson incantato, la vita di un sogno in movimento che fa rumore in mezzo al nulla, scuote le coscienze intorpidite dalla rinuncia di chi ha abbandonato se stesso perché se ne vergogna.
Con lei, oltre alla madre, un padre che di professione scrive saggi sui nove passi per raggiungere il successo, uno zio omosessuale esperto di Proust che ha tentato il suicidio, un fratello appassionato di Friedrich Nietzsche, annichilito in un voto di silenzio finché non riuscirà a realizzare il suo sogno: entrare nell’aeronautica militare.
E poi c’è il nonno che insegna alla nipote la forza dell’anticonformismo e le fa vincere, con uno spettacolo basato su uno striptease davanti ad un pubblico allibito, il premio più ambito: mettere a nudo il desiderio di arrivare primi rimanendo se stessi. A difendere il sogno della piccola Olive, la sua determinazione, salgono sul palco, uniti in un ballo tanto goffo e strampalato quanto liberatorio, tutti i componenti di questo strano viaggio, tutti tranne il nonno, l’antitesi del buon senso, che è morto dopo aver dato vita e messo in scena uno spettacolo che commuove tanto è vero, tanto è diverso da quello degli altri.