La tristezza fa pensare immediatamente alle stagioni. Tra tutte, assomiglia all’autunno, perché il tono dell’umore va in caduta libera, come il sole e le foglie. Ma è un’emozione decisiva perché riesce ad azzerare la nostra identità e a portare un nuovo modo di essere, se la si vive al meglio, se la si accoglie. E proprio qui sta il grande dilemma contemporaneo, perché noi ci ostinamo a combatterla a suon di domande inutili. O, addirittura, ad annullarla a colpi di estenuanti bombardamenti di psicofarmaci, che hanno un solo risultato: aprire la strada alla depressione.
Invece, dobbiamo riuscire a comprendere che l’anima è la parte più autentica e saggia di noi. Non sbaglia mai. E se fa arrivare dentro noi stessi la tristezza è per farci capire che stiamo facendo un percorso sbagliato, che il nostro essere si sta snaturando e che esistono delle alternative salvifiche ai modelli di oggi. Per questo dovremmo lasciare che il dolore si espanda. Perché, infondo, è come un parto, come la rottura delle acque che è presagio di nuova vita. Come una porta che si spalanca all’arrivo di un’energia creatrice, che ci rigenera. Come una benedizione che ci allontana dagli errori e ci regala un’altra possibilità per essere veramente noi stessi, nel mondo più vero.
Il dramma è che ci troviamo in una società dove sembra diventato obbligatorio ridere sempre, sfoderare sorrisi a raffica, mostrarsi forti felici. Dove si imitano le veline, i protagonisti del Grande Fratello, i calciatori e gli imprenditori corrotti. E, allora, non possiamo lasciar sfogare la tristezza, ma dobbiamo subito trovarle una ragione, per esempio: “Lui non mi ama abbastanza“, o: “il lavoro non mi soddisfa“.
Così facendo, però, uccidiamo la forza rigenerante di questa emozione e non possiamo incamminarci sulla strada della rinascita. In questo modo restiamo intrappolati nel copione che il mondo ci impone: uomini superficiali fintamente soddisfatti, omologati.
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