Cosa si nasconde dietro la stipsi, al di là di uno stile di vita scorretto? Secondo la psicosomatica, una branca della psicologia medica che “legge” i disturbi fisici come espressione di un disagio psichico, sarebbe la spia della paura del mondo esterno.
Mente e corpo, infatti, non sono compartimenti stagni, ma due parti di un tutt’uno in grado di influenzarsi reciprocamente. Anche in ambito medico, oramai, il vecchio concetto di malattia intesa come effetto di una causa, è stato soppiantato da una visione multifattoriale, secondo la quale ogni evento, comprese le affezioni che hanno una base organica, sono il risultato di una concomitanza di fattori. Inoltre, molti ipotizzano che la componente psicologica possa agire contribuendo all’insorgere di una malattia, o al contrario favorendone la guarigione.
Al di là delle motivazioni organiche, come la sedentarietà, la cattiva alimentazione, l’abuso di farmaci o una disfunzione dell’intestino, la psicosomatica interpreta la stipsi come l’indice di un atteggiamento conflittuale verso gli altri e noi stessi. Non di rado, infatti, chi è chiuso nel suo guscio difensivo, tenda a soffrire di questo disturbo. Trattenere le feci, infatti, simbolicamente significa non voler cedere nulla di sé, coltivando l’illusione dell’autosufficienza a tutti i costi.
Per stare al mondo, è necessario porsi in relazione con il mondo esterno, e questa attività comporta inevitabilmente uno scambio, un dare e un ricevere. Ciò che entra, una volta assorbito, deve anche poter uscire. Questo processo, che implica la disponibilità a lasciarsi andare, ad assorbire, ma anche a perdere, lo impariamo sin da bambini e va ben al là del contenuto del nostro intestino. La partita si gioca tutta tra il possesso e la donazione di qualcosa che ci appartiene. La stipsi, nasce infatti in risposta a situazioni in cui ci si sente minacciati dall’ambiente, invasi o deprivati, e questo può succedere al lavoro come nel contesto familiare.